I pletismografi polmonari sono strumenti in grado di misurare la capacità polmonare totale, cioè il volume d’aria che entra nei polmoni in seguito a un’inspirazione massima, e il volume d’aria presente nei polmoni alla fine di un’espirazione normale. Si presentano come piccole cabine telefoniche completamente sigillate: il paziente viene fatto sedere e respirare attraverso un boccaglio. Sulla base della differenza tra i volumi dei polmoni pieni e vuoti i medici possono classificare le patologie polmonari in ostruttive o restrittive. Le patologie ostruttive sono quelle in cui i pazienti hanno difficoltà a espellere tutta l’aria presente nei loro polmoni come nella bronchite cronica, nell’asma e nella fibrosi cistica. Le patologie restrittive sono invece quelle in cui i pazienti hanno difficoltà a espandere completamente i loro polmoni, a causa di una situazione di rigidità o dei polmoni stessi o della cassa toracica, come avviene per esempio nei malati di sclerosi laterale amiotrofica.
Il primo esempio di pletismografia, riconosciuta dalla comunità scientifica, risale al 1790. Lo scienziato Robert Menzies immerse un individuo in un barile pieno d’acqua fino al mento e misurò l’innalzamento e l’abbassamento del livello dell’acqua, riuscendo così a determinare la quantità d’aria espirata e inspirata durante i normali atti respiratori.
La moderna pletismografia si fonda sulle innovazioni di tre scienziati americani Arthur B. DuBois, Stella Y. Botelho, e Julius H. Comroe, Jr che nel 1956, grazie alle loro conoscenze di matematica e di dinamica dei fluidi, risolsero i problemi tecnici della pratica pletismografica di quei tempi.